Oggi con due amiche sono stata alla lezione inaugurale dell’anno accademico 2007-2008 dei corsi di laurea triennale e magistrale in biotecnologie mediche e biologia molecolare, intitolata “La ricerca tra ragione e mistero”, in cui interveniva il prof. Vittorino Andreoli, psichiatra e autore di molti libri da me stimatissimo.
È stato un evento talmente interessante che sento l’urgenza di comunicare il suo contenuto al maggior numero possibile di persone, e perciò mi servo di questo blog, sperando che i visitatori abbiano poi il piacere di lasciare anche un loro commento.
Trascrivo quindi subito i miei appunti (ovviamente non rivisti da Andreoli… purtroppo non ho avuto un contatto ravvicinato…), così da ricordarmi meglio le parole del professore ancora ben vive nella mia memoria e cercando di mantenermi il più possibile fedele ad esse. Le mie aggiunte saranno poste tra parentesi quadre. Chiedo scusa per la schematicità di certi passaggi e per eventuali errori e mancanze: sono involontari.
Il prof. Clementi, introducendo l’incontro, ha citato S. Paolo: “L’amore sorpassa la conoscenza e per questo è capace di percepire più del semplice pensiero”.
Quindi Andreoli prende la parola, iniziando col concetto di nostalgia: egli la descrive come memoria dei sentimenti che si fonda su immagini che rievochiamo, e che spesso sono staccate dal contesto in cui si sono verificate. È rifare un viaggio nella memoria, che non è un magazzino in cui i ricordi sono sempre uguali, ma si spostano e cambiano. La nostalgia è scoprire e dare un senso a ciò che si è fatto, e così si riscoprono degli episodi passati a cui si dà un valore nuovo. Il suo sogno da giovane era quello di poter capire la follia attraverso le scienze di base (chimica, biologia…), e questa sua aspirazione gli è stata richiamata alla mente dall’invito che ha ricevuto a tenere questa conferenza. Adesso ha quindi capito alcuni fatti che al momento gli sembravano insignificanti, come ad esempio il gesto umano di un suo maestro, docente di farmacologia, che gli inviava dei soldi insieme alle lettere quando Andreoli si trovava in Inghilterra a studiare: questa comprensione è ora avvertita da lui come importantissima. Della storia della sua vita non vuole cancellare niente.
Passa poi al titolo dell’incontro e in particolare al concetto di ragione, definita da Kant come una categoria della mente. Kant infatti spiegò la mente come strutturata in modo tale da ordinare la nostra percezione del mondo; permette insomma di leggere in maniera razionale il mondo. Per fare questo essa si basa su alcuni principi individuati già da Aristotele: non-contraddizione, temporalità, causalità; perciò quando ci muoviamo nell’ambito di discipline che si collegano alla ragione non possiamo non seguirne i principi. Le conclusioni a cui si arriva in seguito ad uno studio vanno spiegate in modo che chiunque possa farne esperienza, infatti secondo Kant la ragione è una categoria di tutti gli uomini. Ma c’è un fatto nuovo, una scoperta degli ultimi decenni: oggi sappiamo che la categoria della ragione non è fissata e immodificabile, perché l’intelligenza, che ci permette di risolvere problemi nuovi, è plastica. Questo vuol dire che in alcune aree del cervello (frontale e parieto-temporali) c’è la possibilità di nuove strutture che si fondano sull’esperienza: essa permette di arricchire la struttura che è alla base della ragione. Un premio Nobel [di cui non ho capito il nome] ha dimostrato che l’apprendimento (cioè un’esperienza) si lega ad una struttura cerebrale, e si ha una modificazione della struttura anatomica di alcune vie della memoria; perciò la ragione risente dell’esperienza, della storia, della società.
Se legassimo tutto alla ragione, afferma Andreoli, faremmo di nuovo il positivismo, un “neo-neo-positivismo”: diremmo che tutto ciò che sappiamo è dovuto alla ragione, e tutto ciò che non sappiamo lo sapremo in futuro attraverso la ragione, ma non è così.
Il professore spiega poi un altro termine del titolo: il mistero. Il mistero non è un pensiero irrazionale: irrazionale è un’errata applicazione dei suddetti principi della ragione. E nemmeno si può dire che il mistero sia contro la ragione: semplicemente è qualcosa che la ragione non spiega, è una dimensione altra rispetto alla ragione. Una tale affermazione era già stata fatta dalla cultura greca, che distingueva tra logos (discorso razionale) e noumeno (ciò che la ragione non capisce ma verso cui siamo attratti). Quest’ultimo comporta l’emozione e il sentimento, di fronte ai quali non si può essere distaccati, a differenza del logos. Andreoli spiega che quando si trova davanti ad una persona presa da forte paura e panico, non può essere distaccato, non può limitarsi a descrivere il fenomeno: deve partecipare, magari prendendo per mano la persona, e in questo modo rassicurare dandosi all’altro. Non capire (spiegare), ma comprendere (andare verso l’altro). Kant stesso, nonostante tutto, ha voluto che sulla sua tomba si scrivesse “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.
Segue la definizione di ‘sacro’, che è stato analizzato da un antropologo tedesco e da questi descritto come una categoria della mente. Riprende così gli stessi termini kantiani ma per spiegare ciò che attrae e spaventa. Noi tutti percepiamo il sacro, e le religioni sono una risposta al bisogno di sacro che ciascuno ha. Esso non è riducibile alla ragione e alla posizione logica o a una dimostrazione. Il mistero quindi esige una comprensione diversa rispetto a quella del logos, e questa nuova categoria permette di percepire il sacro. Il mistero acquista così una dimensione che non è secondaria, perché l’uomo nel suo sforzo di capire sé e il mondo si trova davanti a due dimensioni.
Andreoli racconta di un suo collega che voleva convincere il CERN a costruire un’apparecchiatura che permettesse lo studio di nuove particelle, la cui realizzazione avrebbe richiesto quarant’anni: è un esempio di come la ragione e il distacco dello studio permettano tempi lunghissimi per la scoperta. Ma il mistero e il sentimento esigono risposte immediate per il rapporto col mondo: non si può consolare una persona che soffre dicendole che tra due anni starà di nuovo bene. Abbandonando gli studi in laboratorio ed entrando nel manicomio lui è passato dal logos al noumeno, ed è stato affascinato dall’“uomo rotto”. Ci sono quindi due categorie diverse, la ragione e il mistero, che servono per descrivere il mondo. La prima non esige una risposta immediata, mentre la seconda non può aspettare. Il termine ‘mistero’ ha un’origine lontanissima, e significa “cosa nascosta, segreta”.
Tra queste due categorie bisogna porre la ricerca scientifica. Siamo sicuri che essa si coniughi con la verità? Oppure siamo disposti a pensare che la verità dell’uomo sia una compenetrazione di queste due forme di sapere? Andreoli cita qui alcuni fisici – che quindi si occupano dei fenomeni studiandoli dall’esterno – e un letterato [di cui purtroppo mi sono sfuggiti i nomi]: “La scienza non può darci la verità, non ha questo per fine. Ha una funzione pratica che è indirizzata all’azione”; “La scienza fa dei modelli di ciò che intende studiare”, il che significa che la scienza non studia direttamente la realtà, ma una sua interpretazione; “La scienza non ci dà la verità oggettiva, ma solo una sua concezione di legalità”, cioè di convenzionalità e coerenza; “I barbari della specializzazione: fenomeno tipico delle scienze”. Siamo sicuri che la scienza applichi sempre il principio di causalità? Esso non è necessario forse solo al determinismo? “Il rapporto causa-effetto è una comoda generalizzazione per gli scienziati, ma non ha riscontri nell’uomo”.
Il mistero ha una dimensione di fede. In ogni momento della nostra vita noi ci fidiamo, poiché il credere è essenziale alla vita e senza di esso non si vivrebbe. Si pensi anche solo a quando vogliamo nominare una cosa: dobbiamo necessariamente fidarci che il suo nome sia quello e non un altro. [In altre parole: non può ogni uomo compiere da capo il cammino della conoscenza umana, altrimenti non ci sarebbe mai progresso, perché non basterebbe non dico una, ma nemmeno cento vite.] Perciò la fede non è secondaria, anzi.
Il mistero è talmente importante nella nostra vita che c’è persino nella scienza. Pensiamo alla scienza del sempre più piccolo e del sempre più grande: è un mistero. L’universo è infinito o illimitato? Nessun astronomo finora ha risposto. Così accade anche per il sempre più piccolo: pensavamo di doverci fermare agli atomi, e invece siamo arrivati ai quark, e così dalla divisione scopriamo particelle sempre più piccole. O pensiamo al mistero della morte. Andreoli dice che, dovendosi occupare di cartelle cliniche, si cerca sempre di attribuirla ad una malattia, solo perché nessuno la accetta. Allora si scrive “è morto per arresto cardiaco”: ma come si fa a morire per arresto cardiaco? La morte è un mistero.
Quando noi affrontiamo questi temi con distacco riduciamo la vita ad una serie di passaggi. In fondo, fa notare il professore, la grandezza della scoperta del DNA sta solo nel saperlo leggere, perché il DNA già c’era. Ad un concerto applaudiamo il direttore e l’orchestra… Ma il compositore? La scienza legge qualcosa che già c’è, e noi non sappiamo perché. Bisognerebbe premiare il “compositore” di quella realtà di cui la scienza fa solo una piccola lettura.
Occorre ricordare che la ricerca scientifica ha dei forti pericoli. Il primo è quello del riduzionismo, cioè l’idea che un fenomeno diventi ciò che si è studiato. Un biologo non può dire di aver scoperto il gene che provoca la depressione, perché il gene non ne è l’unica causa. Scientificamente, ogni comportamento è il risultato di tre fattori: biologia, esperienze, contesto. La biologia dà un apporto straordinario perché studia le disposizioni a un comportamento, ma non lo determina. Il secondo pericolo è quello del meccanicismo, cioè il pensare che l’uomo sia una macchina, sottraendogli così ogni libertà. Questo, oltretutto, va anche contro la plasticità spiegata prima. Il terzo pericolo è quello del razionalismo radicale: con la ragione infatti non si risolve tutto. Un ateo afferma l’inesistenza di Dio, mentre un non credente sa che, come spiegava Pascal, non basta la volontà per credere, ci vuole un’esperienza di Dio. [“Sono un non credente che vorrebbe credere, ma che sa bene che non basta voler credere per credere (lo affermava Pascal). Un non credente che si chiede perché egli non veda in un bambino il Dio fattosi uomo, mentre altri lo percepiscono in maniera evidente, fino a considerare incomprensibile che uno non creda.”, in ANDREOLI Vittorino, Per chi non crede e per chi soffre.] Nell’ateo c’è quindi un razionalismo radicale che nega una possibilità, mentre nel non credente la ragione si lega all’esperienza.
La ricerca esiste anche come ricerca del senso dell’uomo e del suo senso del mondo. La ricerca scientifica va fatta ma bisogna porsi anche la questione della ricerca del proprio senso e di quello della ricerca stessa, e questo non fa che portare all’uomo intero. La follia, ad esempio, è forse la maschera del dolore di un uomo: non posso ridurla ad una molecola. La ricerca non deve limitarsi alle strumentalizzazioni. Un farmaco che serve all’esistenza non risolve la questione del senso dell’esistenza stessa, che costituisce la ricerca più grande. Dobbiamo affrontare il limite della nostra comprensione, che ha uno specchio più vasto su cui si proietta. Solo se considereremo questa dimensione più ampia della ricerca, allora sarà bellissimo sapere che pur studiando bene ci sarà sempre una domanda sul senso della ricerca, perché il ricercatore stesso è un uomo e l’oggetto della sua ricerca è diretto all’uomo.
Cercando sempre il senso dell’uomo dentro il mondo anche il problema etico diventa più semplice, perché si basa così su una coerenza: non con degli interessi, ma sulla coerenza con l'uomo. Prima che scienziati, occorre essere uomini.
È stato un evento talmente interessante che sento l’urgenza di comunicare il suo contenuto al maggior numero possibile di persone, e perciò mi servo di questo blog, sperando che i visitatori abbiano poi il piacere di lasciare anche un loro commento.
Trascrivo quindi subito i miei appunti (ovviamente non rivisti da Andreoli… purtroppo non ho avuto un contatto ravvicinato…), così da ricordarmi meglio le parole del professore ancora ben vive nella mia memoria e cercando di mantenermi il più possibile fedele ad esse. Le mie aggiunte saranno poste tra parentesi quadre. Chiedo scusa per la schematicità di certi passaggi e per eventuali errori e mancanze: sono involontari.
Il prof. Clementi, introducendo l’incontro, ha citato S. Paolo: “L’amore sorpassa la conoscenza e per questo è capace di percepire più del semplice pensiero”.
Quindi Andreoli prende la parola, iniziando col concetto di nostalgia: egli la descrive come memoria dei sentimenti che si fonda su immagini che rievochiamo, e che spesso sono staccate dal contesto in cui si sono verificate. È rifare un viaggio nella memoria, che non è un magazzino in cui i ricordi sono sempre uguali, ma si spostano e cambiano. La nostalgia è scoprire e dare un senso a ciò che si è fatto, e così si riscoprono degli episodi passati a cui si dà un valore nuovo. Il suo sogno da giovane era quello di poter capire la follia attraverso le scienze di base (chimica, biologia…), e questa sua aspirazione gli è stata richiamata alla mente dall’invito che ha ricevuto a tenere questa conferenza. Adesso ha quindi capito alcuni fatti che al momento gli sembravano insignificanti, come ad esempio il gesto umano di un suo maestro, docente di farmacologia, che gli inviava dei soldi insieme alle lettere quando Andreoli si trovava in Inghilterra a studiare: questa comprensione è ora avvertita da lui come importantissima. Della storia della sua vita non vuole cancellare niente.
Passa poi al titolo dell’incontro e in particolare al concetto di ragione, definita da Kant come una categoria della mente. Kant infatti spiegò la mente come strutturata in modo tale da ordinare la nostra percezione del mondo; permette insomma di leggere in maniera razionale il mondo. Per fare questo essa si basa su alcuni principi individuati già da Aristotele: non-contraddizione, temporalità, causalità; perciò quando ci muoviamo nell’ambito di discipline che si collegano alla ragione non possiamo non seguirne i principi. Le conclusioni a cui si arriva in seguito ad uno studio vanno spiegate in modo che chiunque possa farne esperienza, infatti secondo Kant la ragione è una categoria di tutti gli uomini. Ma c’è un fatto nuovo, una scoperta degli ultimi decenni: oggi sappiamo che la categoria della ragione non è fissata e immodificabile, perché l’intelligenza, che ci permette di risolvere problemi nuovi, è plastica. Questo vuol dire che in alcune aree del cervello (frontale e parieto-temporali) c’è la possibilità di nuove strutture che si fondano sull’esperienza: essa permette di arricchire la struttura che è alla base della ragione. Un premio Nobel [di cui non ho capito il nome] ha dimostrato che l’apprendimento (cioè un’esperienza) si lega ad una struttura cerebrale, e si ha una modificazione della struttura anatomica di alcune vie della memoria; perciò la ragione risente dell’esperienza, della storia, della società.
Se legassimo tutto alla ragione, afferma Andreoli, faremmo di nuovo il positivismo, un “neo-neo-positivismo”: diremmo che tutto ciò che sappiamo è dovuto alla ragione, e tutto ciò che non sappiamo lo sapremo in futuro attraverso la ragione, ma non è così.
Il professore spiega poi un altro termine del titolo: il mistero. Il mistero non è un pensiero irrazionale: irrazionale è un’errata applicazione dei suddetti principi della ragione. E nemmeno si può dire che il mistero sia contro la ragione: semplicemente è qualcosa che la ragione non spiega, è una dimensione altra rispetto alla ragione. Una tale affermazione era già stata fatta dalla cultura greca, che distingueva tra logos (discorso razionale) e noumeno (ciò che la ragione non capisce ma verso cui siamo attratti). Quest’ultimo comporta l’emozione e il sentimento, di fronte ai quali non si può essere distaccati, a differenza del logos. Andreoli spiega che quando si trova davanti ad una persona presa da forte paura e panico, non può essere distaccato, non può limitarsi a descrivere il fenomeno: deve partecipare, magari prendendo per mano la persona, e in questo modo rassicurare dandosi all’altro. Non capire (spiegare), ma comprendere (andare verso l’altro). Kant stesso, nonostante tutto, ha voluto che sulla sua tomba si scrivesse “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.
Segue la definizione di ‘sacro’, che è stato analizzato da un antropologo tedesco e da questi descritto come una categoria della mente. Riprende così gli stessi termini kantiani ma per spiegare ciò che attrae e spaventa. Noi tutti percepiamo il sacro, e le religioni sono una risposta al bisogno di sacro che ciascuno ha. Esso non è riducibile alla ragione e alla posizione logica o a una dimostrazione. Il mistero quindi esige una comprensione diversa rispetto a quella del logos, e questa nuova categoria permette di percepire il sacro. Il mistero acquista così una dimensione che non è secondaria, perché l’uomo nel suo sforzo di capire sé e il mondo si trova davanti a due dimensioni.
Andreoli racconta di un suo collega che voleva convincere il CERN a costruire un’apparecchiatura che permettesse lo studio di nuove particelle, la cui realizzazione avrebbe richiesto quarant’anni: è un esempio di come la ragione e il distacco dello studio permettano tempi lunghissimi per la scoperta. Ma il mistero e il sentimento esigono risposte immediate per il rapporto col mondo: non si può consolare una persona che soffre dicendole che tra due anni starà di nuovo bene. Abbandonando gli studi in laboratorio ed entrando nel manicomio lui è passato dal logos al noumeno, ed è stato affascinato dall’“uomo rotto”. Ci sono quindi due categorie diverse, la ragione e il mistero, che servono per descrivere il mondo. La prima non esige una risposta immediata, mentre la seconda non può aspettare. Il termine ‘mistero’ ha un’origine lontanissima, e significa “cosa nascosta, segreta”.
Tra queste due categorie bisogna porre la ricerca scientifica. Siamo sicuri che essa si coniughi con la verità? Oppure siamo disposti a pensare che la verità dell’uomo sia una compenetrazione di queste due forme di sapere? Andreoli cita qui alcuni fisici – che quindi si occupano dei fenomeni studiandoli dall’esterno – e un letterato [di cui purtroppo mi sono sfuggiti i nomi]: “La scienza non può darci la verità, non ha questo per fine. Ha una funzione pratica che è indirizzata all’azione”; “La scienza fa dei modelli di ciò che intende studiare”, il che significa che la scienza non studia direttamente la realtà, ma una sua interpretazione; “La scienza non ci dà la verità oggettiva, ma solo una sua concezione di legalità”, cioè di convenzionalità e coerenza; “I barbari della specializzazione: fenomeno tipico delle scienze”. Siamo sicuri che la scienza applichi sempre il principio di causalità? Esso non è necessario forse solo al determinismo? “Il rapporto causa-effetto è una comoda generalizzazione per gli scienziati, ma non ha riscontri nell’uomo”.
Il mistero ha una dimensione di fede. In ogni momento della nostra vita noi ci fidiamo, poiché il credere è essenziale alla vita e senza di esso non si vivrebbe. Si pensi anche solo a quando vogliamo nominare una cosa: dobbiamo necessariamente fidarci che il suo nome sia quello e non un altro. [In altre parole: non può ogni uomo compiere da capo il cammino della conoscenza umana, altrimenti non ci sarebbe mai progresso, perché non basterebbe non dico una, ma nemmeno cento vite.] Perciò la fede non è secondaria, anzi.
Il mistero è talmente importante nella nostra vita che c’è persino nella scienza. Pensiamo alla scienza del sempre più piccolo e del sempre più grande: è un mistero. L’universo è infinito o illimitato? Nessun astronomo finora ha risposto. Così accade anche per il sempre più piccolo: pensavamo di doverci fermare agli atomi, e invece siamo arrivati ai quark, e così dalla divisione scopriamo particelle sempre più piccole. O pensiamo al mistero della morte. Andreoli dice che, dovendosi occupare di cartelle cliniche, si cerca sempre di attribuirla ad una malattia, solo perché nessuno la accetta. Allora si scrive “è morto per arresto cardiaco”: ma come si fa a morire per arresto cardiaco? La morte è un mistero.
Quando noi affrontiamo questi temi con distacco riduciamo la vita ad una serie di passaggi. In fondo, fa notare il professore, la grandezza della scoperta del DNA sta solo nel saperlo leggere, perché il DNA già c’era. Ad un concerto applaudiamo il direttore e l’orchestra… Ma il compositore? La scienza legge qualcosa che già c’è, e noi non sappiamo perché. Bisognerebbe premiare il “compositore” di quella realtà di cui la scienza fa solo una piccola lettura.
Occorre ricordare che la ricerca scientifica ha dei forti pericoli. Il primo è quello del riduzionismo, cioè l’idea che un fenomeno diventi ciò che si è studiato. Un biologo non può dire di aver scoperto il gene che provoca la depressione, perché il gene non ne è l’unica causa. Scientificamente, ogni comportamento è il risultato di tre fattori: biologia, esperienze, contesto. La biologia dà un apporto straordinario perché studia le disposizioni a un comportamento, ma non lo determina. Il secondo pericolo è quello del meccanicismo, cioè il pensare che l’uomo sia una macchina, sottraendogli così ogni libertà. Questo, oltretutto, va anche contro la plasticità spiegata prima. Il terzo pericolo è quello del razionalismo radicale: con la ragione infatti non si risolve tutto. Un ateo afferma l’inesistenza di Dio, mentre un non credente sa che, come spiegava Pascal, non basta la volontà per credere, ci vuole un’esperienza di Dio. [“Sono un non credente che vorrebbe credere, ma che sa bene che non basta voler credere per credere (lo affermava Pascal). Un non credente che si chiede perché egli non veda in un bambino il Dio fattosi uomo, mentre altri lo percepiscono in maniera evidente, fino a considerare incomprensibile che uno non creda.”, in ANDREOLI Vittorino, Per chi non crede e per chi soffre.] Nell’ateo c’è quindi un razionalismo radicale che nega una possibilità, mentre nel non credente la ragione si lega all’esperienza.
La ricerca esiste anche come ricerca del senso dell’uomo e del suo senso del mondo. La ricerca scientifica va fatta ma bisogna porsi anche la questione della ricerca del proprio senso e di quello della ricerca stessa, e questo non fa che portare all’uomo intero. La follia, ad esempio, è forse la maschera del dolore di un uomo: non posso ridurla ad una molecola. La ricerca non deve limitarsi alle strumentalizzazioni. Un farmaco che serve all’esistenza non risolve la questione del senso dell’esistenza stessa, che costituisce la ricerca più grande. Dobbiamo affrontare il limite della nostra comprensione, che ha uno specchio più vasto su cui si proietta. Solo se considereremo questa dimensione più ampia della ricerca, allora sarà bellissimo sapere che pur studiando bene ci sarà sempre una domanda sul senso della ricerca, perché il ricercatore stesso è un uomo e l’oggetto della sua ricerca è diretto all’uomo.
Cercando sempre il senso dell’uomo dentro il mondo anche il problema etico diventa più semplice, perché si basa così su una coerenza: non con degli interessi, ma sulla coerenza con l'uomo. Prima che scienziati, occorre essere uomini.
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