«Tra un libro di Einstein e un libro su Einstein, scegli il primo. C’è più da imparare dalla oscurità di un maestro che dalla chiarezza di un discepolo. Gli scopritori di continenti hanno disegnato contorni sempre imprecisi delle coste, che oggi qualsiasi agenzia turistica è in grado di correggere. Preferisco chi ha scoperto i continenti».
Pontiggia ci ricorda che è bene preferire «l’oscurità di un maestro» alla «chiarezza di un discepolo», e su questa affermazione è facile trovarsi subito d’accordo. Ma quali sono i motivi che stanno alla base di questa convinzione? Occorre trattare con attenzione la questione, poiché nel rispondere a questa domanda è facile cadere in contraddizione.
Si può ritenere un bisogno proprio dell’uomo quello di rintracciare le cause di ciò che ha di fronte, e questa esigenza di ricerca continua delle origini è ultimamente la stessa che dà impulso allo sviluppo della conoscenza e della civiltà. Thomas Mann esprime mirabilmente questo stesso concetto: «Profondo è il pozzo del passato … È ben comprensibile che il suo mistero formi l’alfa e l’omega di tutti i nostri discorsi e di tutte le nostre domande» (MANN Thomas, «Le storie di Giacobbe», in Giuseppe e i suoi fratelli). Potrebbe sembrare che questo sia un fatto che non investa la nostra vita quotidiana, ma a ben guardare non è così.
Partiamo da un esempio che potrebbe riguardare chiunque: il dover scegliere tra l’opera di un autore e un commento, sapendo che quest’ultimo consente una lettura più agevole degli stessi concetti espressi dall’autore. In buona fede, facilmente saremmo attratti dal commento, o anche da più commenti, e questo non tanto per economia di tempo, ma soprattutto per completezza, in quanto il confronto tra le varie interpretazioni è certamente utile all’approfondimento di un testo. Ma occorre ricordare che esso non può essere fatto prescindendo dal testo stesso; così, infatti, subiremmo supinamente il parere di altri che – per quanto autorevole – resta un parere, senza contare poi che le semplificazioni e le schematizzazioni operate dai commentatori potrebbero anche involontariamente banalizzare il contenuto dell’originale. Ecco dunque che nell’intento di andare a fondo, ci siamo fermati alla superficie dell’opera. Questa contraddizione si ripropone ogni giorno nelle scuole e nelle università che basano l’apprendimento proprio sulla conoscenza indiretta, la quale è un metodo potentissimo e insostituibile ma che va applicato consapevolmente, pena il rischio di essere “plagiati” dai libri sui quali si studia.
Andrebbe pertanto riacceso un interesse prima di tutto per il testo originale, per la conoscenza dell’opera nel suo significato, che si offrirebbe così intatto anche e soprattutto alla nostra interpretazione di lettori, sprigionando la sua capacità di rispondere alle nostre domande e di suscitarne di nuove, caratteristica che nei classici della letteratura è molto spiccata ed è forse proprio essa a renderli tali. Afferma lo storico dell’arte George Kubler (KUBLER George, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose) che un artefatto originale nel suo ambito – e con questo si intende che esso si distingue dalle altre opere come un mutante si distingue dagli altri membri della sua specie, e impone conseguenze su tutta la sua discendenza – «allarga direttamente la coscienza umana … aprendo nuove vie al modo di esperire l’universo».
Si può ritenere un bisogno proprio dell’uomo quello di rintracciare le cause di ciò che ha di fronte, e questa esigenza di ricerca continua delle origini è ultimamente la stessa che dà impulso allo sviluppo della conoscenza e della civiltà. Thomas Mann esprime mirabilmente questo stesso concetto: «Profondo è il pozzo del passato … È ben comprensibile che il suo mistero formi l’alfa e l’omega di tutti i nostri discorsi e di tutte le nostre domande» (MANN Thomas, «Le storie di Giacobbe», in Giuseppe e i suoi fratelli). Potrebbe sembrare che questo sia un fatto che non investa la nostra vita quotidiana, ma a ben guardare non è così.
Partiamo da un esempio che potrebbe riguardare chiunque: il dover scegliere tra l’opera di un autore e un commento, sapendo che quest’ultimo consente una lettura più agevole degli stessi concetti espressi dall’autore. In buona fede, facilmente saremmo attratti dal commento, o anche da più commenti, e questo non tanto per economia di tempo, ma soprattutto per completezza, in quanto il confronto tra le varie interpretazioni è certamente utile all’approfondimento di un testo. Ma occorre ricordare che esso non può essere fatto prescindendo dal testo stesso; così, infatti, subiremmo supinamente il parere di altri che – per quanto autorevole – resta un parere, senza contare poi che le semplificazioni e le schematizzazioni operate dai commentatori potrebbero anche involontariamente banalizzare il contenuto dell’originale. Ecco dunque che nell’intento di andare a fondo, ci siamo fermati alla superficie dell’opera. Questa contraddizione si ripropone ogni giorno nelle scuole e nelle università che basano l’apprendimento proprio sulla conoscenza indiretta, la quale è un metodo potentissimo e insostituibile ma che va applicato consapevolmente, pena il rischio di essere “plagiati” dai libri sui quali si studia.
Andrebbe pertanto riacceso un interesse prima di tutto per il testo originale, per la conoscenza dell’opera nel suo significato, che si offrirebbe così intatto anche e soprattutto alla nostra interpretazione di lettori, sprigionando la sua capacità di rispondere alle nostre domande e di suscitarne di nuove, caratteristica che nei classici della letteratura è molto spiccata ed è forse proprio essa a renderli tali. Afferma lo storico dell’arte George Kubler (KUBLER George, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose) che un artefatto originale nel suo ambito – e con questo si intende che esso si distingue dalle altre opere come un mutante si distingue dagli altri membri della sua specie, e impone conseguenze su tutta la sua discendenza – «allarga direttamente la coscienza umana … aprendo nuove vie al modo di esperire l’universo».